Su di noi grava un grande compito storico a cui dobbiamo corrispondere se vogliamo essere all’altezza dell’ambizione che ci poniamo
Gestire una sconfitta non è mai semplice. Comprenderne le ragioni, inoltrarsi alla ricerca delle radici per fissare, da lì, un percorso possibile di ripartenza appartiene al catalogo delle azioni complesse e faticose. Tanto più in un tempo che è difficile definire ordinario: basta guardarsi attorno, basta soffermarsi anche solo un attimo sull’espansione ad ogni latitudine di una potente ondata ideologica che parla – di nuovo – di muri, di esclusione, di differenze etniche e che considera nemiche le autorità indipendenti e tutti quelli che esprimono opinioni difformi.
Un patrimonio di principi e fondamenti del nostro vivere comune che credevamo acquisito è messo in discussione: dalle conquiste democratiche, alla pace, alla cooperazione tra popoli e Stati. Fino a ieri eravamo convinti che l’idea dell’Europa come casa comune, quell’Europa che ha allontanato da noi conflitti e confini, appartenesse a tutti indistintamente. Non è così. Perfino nel lessico pubblico sono ricomparse parole che pensavamo dimenticate per sempre.
Credo che di fronte a quanto sta accadendo in Italia e nel mondo intero è necessaria una svolta culturale dei Democratici che tenga anche conto della crisi di un modello di sviluppo che ha generato crescita ma anche diseguaglianze e determinato la grande emergenza ambientale.
E’ un cambiamento profondo che non possiamo pensare di risolvere in qualche settimana ma che è necessario e richiede insieme capacità di analisi e presenza nel vivo della società perché un partito non è un’agenzia culturale.
In questo senso la sfida per noi Democratici è ricostruire la fiducia che abbiamo perduto, prestando sempre maggiore attenzione alla voce dei meno garantiti, della parte più debole delle nostre comunità. Dobbiamo immaginare una fase nuova a partire dalla domanda di giustizia, di umanizzazione, di pace, di qualità che, presente e anzi prevalente nella nostra società, rimane però latente e senza parola.
Di questo dobbiamo occuparci oggi. Dobbiamo sapere che su di noi, comunità dei Democratici, grava un grande compito storico a cui dobbiamo corrispondere se vogliamo essere all’altezza dell’ambizione che ci poniamo, cioè tornare alla guida del Paese per condurlo fuori dalle secche dell’incipiente recessione e, direi soprattutto, per impedire che tentazioni illiberali presenti nell’attuale maggioranza possano trovare compimento.
Il senso del nostro congresso è tutto qui. E la misura dei nostri comportamenti, delle nostre scelte, dei nostri atti sta qui e non certo in posizionamenti tattici o di corto respiro che, lo dico perché non ci siano equivoci, non riguardano l’uno o l’altro ma tutti noi.
Non deve esserci meno che questo orizzonte nella nostra vicenda congressuale. Non siamo in un tempo ordinario, sia sul piano interno che su quello internazionale come si vede sia dalle difficoltà della sinistra in tutto il mondo sia dalla diffusione di forze e perfino di governi ispirati a ideologie isolazioniste e nazionaliste quando non esplicitamente xenofobe.
C’è dunque un grande lavoro da fare e credo che abbiamo cominciato a farlo nei mesi alle nostre spalle. Dobbiamo puntare su questo, dobbiamo affinare l’anima ed il patrimonio ideale dei Democratici, riscoprire la connessione con la parte più debole della società perché, alla fine, è questo il senso della politica per chi come noi ha scelto di stare da questa parte del campo. E nel farlo, naturalmente, dobbiamo essere aperti al colloquio, al dialogo con tutte quelle esperienze civiche, i movimenti e le espressioni della società che condividono le nostre stesse preoccupazioni e i nostri propositi.
Sono sicuro che se sarà questa la rotta e se cammineremo preservando come un bene prezioso la nostra unità, se mai consentiremo che si appanni la consapevolezza della nostra responsabilità verso il Paese, le difficoltà non spariranno come d’incanto ma avremo la forza e la generosità per superarle.